Colpiti due volte: dal crimine e dalla sentenza
L’omicidio di Giulia Cecchettin ci ha colpiti nel profondo.
Per la sua brutalità, per la sua assurdità, per la sua tragica prevedibilità.
E oggi ci colpisce una seconda volta.
Non con un’arma, ma con una parola: “inesperienza”.
È questo il termine utilizzato dal giudice Carlo Ancona nella motivazione della sentenza che ha condannato l’assassino di Giulia a 24 anni e sei mesi di reclusione.
Una parola che dovrebbe apparire ad altri ambiti: alla scuola, al lavoro, magari a una delusione amorosa adolescenziale.
Non certo a un femminicidio, compiuto con premeditazione, con crudeltà, con totale disumanità.
Il giudice Ancona ha parlato di “giovane età, inesperienza e fragilità emotiva” dell’imputato, sottolineando come questi elementi hanno contribuito a una “gestione non corretta” della rabbia e del conflitto.
Ma da quando l’inesperienza è una causa attenuante per l’omicidio?
Da quando una scarsa capacità di affrontare le emozioni giustifica il togliere la vita a un’altra persona?
Parlare di inesperienza in questo contesto è una forma di violenza istituzionale.
È uno schiaffo non solo alla memoria di Giulia, ma a tutte le donne che ogni giorno denunciano, sopportano, fuggono, muoiono.
È un messaggio pericoloso, che legittima culturalmente l’idea che si possa sbagliare fino a uccidere — e riceverne in cambio una comprensione indulgente.
C’è di più: troppo spesso chi commette questo tipo di reato non ha neppure piena consapevolezza della gravità del proprio gesto.
Si parla di “scatti d’ira”, di “gesti disperati”, di “perdita di controllo”, come se il femminicidio fosse un fatto isolato, improvviso, slegato da una cultura che lo rende possibile.
Come se la colpa, alla fine, non fosse mai del tutto dell’assassino.
E invece, puntualmente, si insinua un “sì però…”
“Sì, però lei poteva non rispondere al telefono”,
“Sì, però lei poteva evitare di uscire da sola”,
“Sì, però lei indossava una minigonna”.
Questa è colpevolizzazione della vittima. Ed è questa mentalità, che distrugge, annienta…
È l’ennesima distorsione che sposta la responsabilità dal carnefice a chi non ha fatto altro che vivere, scegliere, amare, decidere.
Ed è questa mentalità, ancora radicata, che va smontata pezzo per pezzo.
Perché finché continueremo a cercare cosa ha “sbagliato” la vittima, continueremo a giustificare l’ingiustificabile.
Giulia non è morta per un errore.
È stata uccisa perché il suo ex non accettava di perderla, perché ha agito con lucidità, con consapevolezza, con violenza.
Giulia è morta perché era una donna che aveva scelto di vivere libera.
E la libertà delle donne, ancora oggi, viene punita.
Come associazione che da anni si occupa di violenza di genere, sentiamo la responsabilità di denunciare con forza la pericolosità di questa narrazione.
Quando la giustizia attenua le responsabilità di chi uccide, contribuisce a consolidare una cultura che minimizza la violenza, la normalizza, la rende accettabile sotto certe condizioni.
E non possiamo permetterlo.
Non in nome di Giulia.
Non in nome delle oltre cento donne uccise ogni anno in Italia.
Non in nome delle tante che oggi stanno vivendo relazioni segnate dalla paura, dalla coercizione, dalla violenza.
Giulia Cecchettin era una ragazza brillante, piena di sogni, di intelligenza, di umanità.
Aveva appena ottenuto la laurea, pronta ad affacciarsi al mondo con le sue idee e la sua voglia di fare.
Forse avrebbe cambiato il mondo.
Ma non le è stato concesso.
E oggi, a quel mondo che le ha voltato le spalle due volte — con la mano dell’assassino e con la penna del giudice — diciamo che non taceremo.
Continueremo a lottare perché la giustizia sia davvero giusta.
Perché la violenza venga riconosciuta per quello che è: una scelta, un crimine, una responsabilità piena e consapevole.
E perché nessuna inesperienza, mai, possa diventare una scusa per togliere la vita a qualcuno.
Antonella Iannoccaro